La
sacralità di una vita degna di essere vissuta.
Una
riflessione sul testamento biologico, per non dimenticare quello che il
Parlamento sembra aver abbandonato.
Sei anni fa, in mezzo a tante,
troppe, voci politiche e non solo, moriva Eluana Englaro.
Sei anni fa, dopo le morti
soffertissime di tanti tra cui Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby, divampava
il dibattito sul fine vita.
Oggi, nonostante tutto quello che è
stato, il diritto all’autodeterminazione terapeutica nel nostro paese viene
ancora messo in discussione.
Di testamento biologico, in Italia,
tanto si è parlato negli ultimi anni soprattutto in coincidenza con (e a
partire da) alcuni casi che hanno occupato le pagine del dibattito giuridico,
politico e pubblico.
Come spesso accade però, problematiche che emergono in
certi momenti con incredibile forza e spinta finiscono per essere via via, se
non dimenticate, per lo meno accantonate in virtù di nuovi, e presumibilmente
più esaltanti, dibattiti.
Questo è quello che è successo al
Disegno di legge in materia di Dichiarazioni anticipate di trattamento, ancora
in attesa, dal 13 luglio 2011, di completare l’esame parlamentare.
Quando si parla di testamento
biologico o di dichiarazioni anticipate di trattamento ci si riferisce all’atto,
scritto, in cui dovrebbe essere possibile indicare quali cure mediche e
trattamenti sanitari vogliamo che ci siano applicati nel caso in cui la
situazione concreta non permetta ai medici di chiedercelo direttamente.
Ciascuno di noi ha il fondamentale
diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, ossia il diritto di
assumere liberamente le decisioni che riguardano la propria salute. Questo
diritto deriva dall’art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla
salute e afferma che nessuno può essere obbligato a sottoporsi a un trattamento
sanitario, a meno che non sia una legge a prevederlo (come avviene, ad esempio,
con le vaccinazioni obbligatorie).
L’attuazione pratica di questo principio
avviene per mezzo dello strumento del consenso
informato. La volontarietà dei trattamenti sanitari stabilita dalla
Costituzione e il consenso informato, che ne è attuazione pratica, sono
concetti che si presentano come due facce di una stessa medaglia. I due
concetti creano un delicato equilibrio che permette all’individuo di esprimere
le proprie scelte nel campo dell’autodeterminazione terapeutica e gli permette
di tracciare autonomamente i confini del rispetto della propria dignità e della
propria persona.
Ma non sempre il paziente è in grado di fornire questo consenso,
perché potrebbe trovarsi in un momentaneo stato di incapacità di intendere e
volere.
Ed è in casi come questi che un
testamento biologico potrebbe fare la differenza.
I progressi tecnologici applicati
alla scienza medica, l’accrescimento delle prospettive di vita e le nuove
possibilità diagnostiche e terapeutiche hanno reso necessaria una riflessione
su queste tematiche, dal momento che oggi è possibile tenere in vita una
persona in modo parzialmente o totalmente artificiale.
Storie come quelle di Eluana
Englaro e di Piergiorgio Welby hanno portato l’attenzione di tutti sulla
possibilità di dissentire da trattamenti terapeutici cosiddetti salvifici (o
salvavita), ossia quelle terapie mediche dalla cui attivazione o prosecuzione
dipende la vita del paziente.
Il nostro diritto costituzionale
all’autodeterminazione terapeutica arriva fino a permetterci di esprimere il
desiderio di non essere sottoposti a una tale terapia, anche se dalla
realizzazione della nostra richiesta deriverà la morte?
Nei casi in cui la libera scelta
dell’individuo di non consentire a un determinato trattamento terapeutico
comporti, come certa e inevitabile conseguenza, la sua morte, il problema che
viene sollevato è quello della disponibilità o indisponibilità del diritto alla
vita.
Abbiamo, cioè, la libertà di decidere liberamente e totalmente cosa fare
della nostra vita e della nostra morte?
Se nessuno può essere obbligato a
sottoporsi a un trattamento sanitario e tutti abbiamo il diritto costituzionale
di consentire o dissentire alle cure mediche dovrebbe essere possibile anche
rifiutare, in maniera consapevole, un trattamento sanitario salvavita.
Una scelta di questo tipo dovrebbe
essere possibile in un’ottica di tutela di un diritto di ciascuno di scegliere
che tipo di vita desidera vivere: il diritto dell’individuo di valutare, entro
dei confini che la legge dovrebbe stabilire, quale qualità di vita ritiene
accettabile. Ciò significherebbe dare a ognuno la libertà di scegliere per sé,
senza attribuire però a nessuno il diritto di decidere per gli altri.
Il dibattito si accende quando
sulla bilancia, accanto alla libertà di scelta, si mette il concetto di
sacralità della vita. Il problema è noto, ed è lo stesso che si incontra in
molti altri temi (per esempio i matrimoni omosessuali). Il nostro ordinamento è
di fatto fortissimamente influenzato dai valori della religione cattolica, e
questo di per sé non deve essere per forza etichettato come il peggiore dei
mali. Lo diventa, però, quando i valori diventano imposizioni, verità assolute
e valide per tutti, cattolici e no.
Non lo si dirà mai abbastanza, ma
il nostro è uno Stato laico, dove laicità (per usare le parole della Corte
costituzionale) implica non indifferenza
dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia
della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.
Questo significa che in realtà,
sulla base del principio di laicità dello Stato, non sarebbe possibile
effettuare ragionamenti interpretativi, o addirittura discussioni in sede
legiferante, che partano dal concetto di sacralità della vita umana derivante
dalla religione cattolica. Lo Stato dovrebbe ragionare da una posizione di
equidistanza da tutte le confessioni religiose o le morali. Lo Stato non può
“nascondersi” dietro a concetti religiosi che rispecchiano la morale solo di
una parte, magari anche ampia, della popolazione, per disciplinare situazioni
che si rifletteranno su tutti i cittadini.
La posizione di equidistanza, e non
indifferenza, dello Stato non solo nei confronti delle confessioni religiose,
ma anche più in generale delle diverse posizioni culturali, implica la
necessità che l’ordinamento garantisca le stesse possibilità di esplicare la
propria personalità a ciascun soggetto in espressione della sua religione o
cultura.
La sacralità della vita non deve
essere interpretata in una visione religiosa, ma piuttosto in una plurale: per
qualcuno la vita è sacra a prescindere da tutto, per altri la sacralità della
vita risiede in altre cose come la donna
che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna
con un amico (…) la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che
ti delude (parole di Piergiorgio Welby nella lettera aperte che il 24febbraio 2009 inviò al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ).
Secondo la Corte costituzionale, la
Costituzione garantisce il principio di laicità dello Stato caratterizzando in senso pluralistico la
forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di
libertà, fedi, culture e tradizioni diverse, e quest’uguaglianza può essere
garantita solo se le discussioni legislative prendono il via da concetti che
non siano espressione di una data cultura, religione, o credo.
Uno Stato laico dovrebbe assicurare
gli stessi diritti e le stesse possibilità di realizzazione a tutti, qualunque
sia il loro credo religioso. Non ci stancheremo mai di dirlo: emanare leggi
sulle coppie di fatto, sui matrimoni omosessuali o sul testamento biologico non
significa sminuire il valore della famiglia o quello della sacralità della vita
per coloro che credono in questi valori.
Nella legge devono poter trovare
spazio tutti i valori, compatibili con i principi costituzionali, emergenti
dalla società.
Lasciando da parte le convinzioni
religiose e morali in generale, per quanto questo possa essere, in casi come
questo, difficile, ci sembra che l’ordinamento debba farsi carico di tutelare
la vita dei singoli in una visione pluralista, e non limitarsi a uno specifico
concetto di vita.
Questo significa, a nostro avviso,
che l’ordinamento deve mettersi nella posizione di disciplinare il maggior
numero di richieste - s’intende, costituzionalmente legittime - dei cittadini
circa l’esplicazione e l’esercizio del diritto alla vita. Sempre a nostro
avviso, questo non può che portare a sostenere un concetto di qualità della vita piuttosto che uno di sacralità della vita.
Parlando, infatti, in questi
termini non s’imporrebbe nessuna posizione, ma si deciderebbe di disciplinare
il maggior numero di possibilità di esercizio del diritto alla vita, così da
tutelare le diverse concezioni di qualità della vita.
Si passerebbe così dalla garanzia
del diritto alla vita, a una più specifica tutela e difesa del diritto alla qualità della vita.
Questo
diritto non escluderebbe nessun concetto di sacralità
della vita, ma dovrebbe essere interpretato come una categoria generale,
dove ciascuno può essere libero di realizzare la propria qualità della vita.
Solo così sarà tutelato – sempre,
ovviamente, entro i limiti stabiliti dalla legge - sia chi intende la vita come
sacra e intangibile secondo il proprio credo o morale, sia chi ritiene che la
vita debba essere, per il singolo, un bene disponibile. E che a certe
condizioni può diventare meno desiderabile di una dignitosa morte.
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